Da Collettivo Chiaroscuro, 3 Dicembre 2024
Alfredo Betrò CCS: «La fotografia cinematografica si realizza tramite immagini in movimento e tutti noi cinematographers siamo legati prevalentemente alla fotografia in movimento, ma sempre più, specialmente tra gli studenti, noto una enorme passione e talento nella fotografia fissa. Sui set, per decenni si è vista l’importante figura del fotografo di scena, con il compito di raccontare la lavorazione di un film e fornire immagini a giornali e riviste per promozione e anche per la vendita all’estero. Personalmente ho conosciuto Angelo Novi, Sergio Strizzi, Emilio Lari, Angelo Raffaele Turetta, Stefano Schirato. Da alcuni anni le cose sono cambiate e i fotografi di scena si vedono sporadicamente sul set, non seguono tutto il film ma solo alcune giornate considerate più importanti. Tra i cinematographers, ben pochi usano le loro Nikon o Canon o Leica sul set. Potrei citare Storaro, che ha usato prevalentemente la tecnica delle doppie esposizioni, o Crescenzo Notarile negli U.S.A., con una rielaborazione delle sue immagini tutta personale.
Giuseppe Bonito, oltre a essere un bravissimo regista con cui ho collaborato molte volte, è un appassionato di fotografia, sia analogica che digitale. Durante la fase di preparazione mi ha detto che gli sarebbe piaciuto vedere un mio racconto del set con immagini fisse, in bianco e nero, usando la sua Leica M9 e un obiettivo solo, un 35mm, nella grande tradizione di Henri Cartier-Bresson. Non avevo mai usato una Leica, sono di una generazione nata con le fotocamere reflex, ma la prima volta in cui ho dovuto mettere a fuoco con un mirino a telemetro, o “rangefinder”, mi ci sono appassionato. Quella doppia immagine che deve diventare una, per avere il soggetto a fuoco, la chiarezza di visione del mirino e la velocità di esecuzione mi hanno aperto un nuovo modo di fotografare e forse anche una composizione più “libera”. Delle 20 foto in mostra, solo una è stata leggermente ricomposta, ma lo dico restando a favore della post-produzione, a cui tutti i grandi fotografi del passato ricorrevano.
A volte è difficile fotografare nel mondo reale, almeno per chi fa il nostro lavoro: siamo abituati a un mondo ricostruito, a un lavoro di scenografia e costume, al controllo della luce. Poterlo fare sul set, sul nostro set, produce una soddisfazione massima. Abbiamo illuminato la scena interpretando la sceneggiatura, conosciamo tutti gli angoli migliori da poter inquadrare, cerchiamo immagini esteticamente forti che non andranno tutte a far parte del racconto cinematografico per necessità di montaggio, ma che ci danno un puro piacere estetico. Alcune di queste foto sono state viste da Bruno Gambarotta, il nostro consulente per la ricostruzione delle trasmissioni storiche. Bruno mi ha messo a disposizione i suoi contatti per farne una mostra, e ha scritto un bel testo di presentazione.
Bruno Gambarotta presenta la mostra su Mike: «Alfredo Betrò non è solo il direttore della fotografia del film in due puntate sulla vita di Mike Buongiorno ma è anche, con la sua Leica, il cantore di quest’impresa. Nella storia del cinema si trova un discreto numero di film che raccontano storie ambientate sul set di un film. I primi titoli che affiorano nella memoria sono 8 e 1/2 di Federico Fellini, La notte americana di François Truffaut, La ricotta di Pier Paolo Pasolini. In questo caso però ci troviamo di fronte a un doppio salto mortale. Alfredo Betrò con le sue fotografie racconta l’allestimento del set di un film (Mike) che a sua volta racconta l’allestimento del set non di un film ma di alcuni programmi televisivi del passato diventati mitici. Non lo fa con le parole ma con immagini che sospendono il tempo e le persone. Tutti tacciono. Il nero catacombale ci ricorda che il fascino esercitato dal cinema nasce dal fatto che si manifesta in una caverna, ovvero in una buia sala di proiezione. Anche nei mitici anni degli inizi lo studio televisivo era una sorta di caverna. Ognuna di queste venti fotografie è una narrazione. Racconta una provvisoria e temporanea resurrezione dei personaggi e delle cose. Le antiche telecamere estratte dal Museo della Radio e della Televisione e rese funzionanti ancora una volta smettono di essere strumenti e diventano personaggi del film. Come quei minatori diventati guide turistiche nella miniera trasformata in museo. Queste fotografie ci dicono che quello di diventare col passare del tempo elementi d’arredo per rievocare un tempo scomparso è un destino comune, di uomini e cose. È anche quello del personaggio Mike Buongiorno che qui si sdoppia nel Mike giovane e in quello adulto, entrambi fissati da Betrò in silenziosa meditazione. Queste foto ci spiegano che nella finzione tutto è doppio, non solo Mike ma le telecamere, i microfoni, le lampade, gli altri personaggi. Tutto passa. Ma l’arte che queste fotografie ci donano resta».